emigrati.it Associazione Internet degli Emigrati Italiani - Cultura Italiana Contemporanea - www.emigrati.org - Home Page
emigrati.it Associazione Internet degli Emigrati Italiani - www.emigrati.org
emigrati.it Dipartimento Formazione e Informazione via Internet Politica Internazionale Digital Divide e Tecnologie dell'Informazione Linux ed il Software Libero Partners - Internet Network dell'Associazione Internet degli Emigrati Italiani Contatti - IContacts - Contacten - www.emigrati.it

---L’Eredità di Martin HEIDEGGER. Il problema della verità

---Michele BORRELLI al 1° Festival internazionale della filosofia in Sila

 

--1° Festival internazionale della filosofia in Sila - --Ermeneutica, Spirito, bellezza e trascendenza - Gioacchino da Fiore e Gianni Vattimo a confronto: la forza della Calabria

--7 giugno 2006, Silvana Mansio - SERRA PEDACE (CS)

--Michele BORRELLI

--L’eredità di Martin HEIDEGGER
Il problema della verità

--Silvana Mansio , 7 giugno 2006

--Se cerchiamo di cogliere, anche solo schematicamente, almeno qualche elemento di fondo che possa dar voce sempre ancora all’attualità e all’eredità del pensiero di Martin Heidegger, penso si possa dire che con Heidegger si porta, innanzitutto, a compimento il processo di fine della metafisica, quel processo di nichilismo negativo intrinseco al pensiero Occidentale messo allo scoperto, anche se da angolazioni diverse, già da Max Stirner e Friedrich Nietzsche. La fine della metafisica sta qui per perdita della credenza di potersi basare su una verità oggettiva, in ultima analisi: definitiva e inconfutabile. In questo processo di dissoluzione del fondamento veritativo e quindi di ogni pretesa di fondazione universale e oggettiva ha giocato in Occidente un ruolo decisivo la categoria del nulla 1) o del niente e soprattutto la contrapposizione essere e nulla.


--Il nulla è una categoria reclamata da più parti come problema di fondo e della significazione o negazione della cultura Occidentale o della storia della metafisica o dell’essere. Ma, reclamare il nulla ha, non a caso, una molteplicità di significati. Si va, per esempio, dalla negazione radicale di ogni categoria sovraindividuale o sovrastorica, quindi dalla negazione dei concetti o del pensiero o della ragione in generale, in quanto ritenuti luoghi di distruzione del fondamento dell’esistenza e dell’autenticità umana, alla devastazione del Dio morale o della divinizzazione dell’uomo per ridare nuovamente, singolarità, differenza e unicità ad ognuno, basandosi appunto su nulla (è il caso di Stirner), al nulla come possibile nuova trascendenza dopo la morte di Dio (del Dio morale ovviamente 2): è il caso di Nietzsche) o all’apertura all’essere come evento o accadimento (Ereignis), come contrapposizione ad ogni forma di ontologia metafisica (è il caso soprattutto di Heidegger). Dal regno metafisico dei fini (di Kant) al regno metafisico della libertà (di Marx), è impossibile, da prospettiva stirneriana, nietzscheana e heideggeriana, pensare in termini di telos o mediazione spirituale fra ragione e esperienza storica, o in termini di continuità storica come quel processo sensato di una ragione storica o di una ragione in generale che si impone, hegelianamente, nella storia.
--Se per Stirner il nulla è quell’istanza positiva a partire dalla quale l’unico 3) può dare nuovamente fondamento a se stesso e senso alla vita, il nulla di Nietzsche, invece, è quell’istanza negativa che solo accogliendola come destino 4) la si può superare conferendo fondamento e senso alla vita e risposta alla dissoluzione di ogni valore e allo sprofondare dell’uomo appunto negli abissi del nulla. In termini nietzscheani: preferire il nulla al non volere nulla 5), come punto d’inizio e d’approdo per fuoriuscire dall’abisso del nichilismo.


--La risposta di Heidegger al nichilismo

--Con Heidegger spostiamo l’attenzione su una prospettiva un po’ diversa di consumazione o superamento del nichilismo. Intanto è la stessa filosofia della tradizione occidentale, come ontologia metafisica, a manifestare, secondo Heidegger, il suo essere nulla, costituendosi, infatti, sul nulla ed in questo senso, irreparabilmente, in vista del nulla 6). In chiave di lettura filosofica, si può, allora, superare il nichilismo? Ovverosia, ha senso superarlo o parlarne? Perché non fondare la propria esistenza vivendo per il nichilismo, ovverosia vivendo il nichilismo fino in fondo, come propone, per esempio, Vattimo 7)? Per quel che riguarda il problema del nichilismo, così come posto da Heidegger, più che rispondere alle domande messe qui in gioco è, anzitutto e primariamente, necessario cogliere l’essenza del nichilismo, ovverosia rispondere al senso o non-senso del nichilismo a partire da ciò che Heidegger definisce essenza stessa del nichilismo. Ora, partendo proprio dalla domanda sull’essenza del nichilismo bisogna dire che, per Heidegger, il nichilismo non è fenomeno a cui ci si può avvicinare dall’esterno, ma accadimento (interno) che appartiene alla storia stessa dell’essere e quindi al darsi e ritrarsi dell’essere nelle diverse aperture storico-epocali della metafisica 8). Visto da questa angolazione, il nichilismo, allora, è destino epocale legato al pensiero dell’essere, ma di quell’essere, però, in cui heideggerianamente dell’essere non è più niente. Di qui, intanto, la necessità heideggeriana di ripensare il destino metafisico come erranza che non è solo da riferire al soggetto in quanto singolarità, ma alla storia dell’essere in generale. Per rispondere alla domanda sopra avanzata: se ne va dell’essere nella sua storia, ha certamente senso, come mette in luce Heidegger, porsi filosoficamente la domanda sull’essenza del nichilismo e ripensare il destino metafisico in termini di (superamento) Überwindung, o meglio di consumazione interna della metafisica (Verwindung der Metaphysik) della soggettività. In questa consumazione interna, si tratta di andare alle radici del processo nichilistico che Heidegger riconduce al mutamento dell’essenza della verità iniziato con Platone. Mutamento di una verità, intesa originariamente come svelatezza o discoprimento (aletheia/Unverborgenheit) dell’essere, quindi costitutivamente come essenza stessa dell’essere, che però con Platone, e successivamente a lui, assume, da prospettiva heideggeriana, il carattere nudo e crudo di soggettività o meglio soggettità (Subiektität), questo il termine di Heidegger. Verità come soggettività e non verità come essere. È la soggettività che a partire da Platone è il punto (metafisico) di riferimento o d’inizio di rovesciamento della verità dell’essere. È, infatti, ormai la soggettività l’istanza che pretende di cogliere l’essere nel suo essere e d’imporsi o volersi imporre sull’essere. È l’imporsi del dominio dell’ente in cui l’essere, gioco forza, si detrae e cade in oblio. Se seguiamo Heidegger, con l’avanzata del primato della soggettività o soggettità non siamo più nella storia dell’essere, anzi completamente e irreparabilmente fuori dal dominio dell’essere e quindi fuori dal dominio della verità. Siamo entrati appunto nella storia della metafisica del soggetto. Detto diversamente: siamo entrati nella storia della dimenticanza dell’essere (Seinsvergessenheit) che Heidegger, con grande lucidità, identifica nel mondo contemporaneo col tema o problema della tecnica dispiegata o Gestell. Ovverosia: con la messa a fuoco dell’essenza della tecnica, legata alla storia della metafisica proprio in termini di oblio dell’essere. La tecnica si configura come impero o dominio a partire dall’imporsi della Subjektität, ecco perché, per Heidegger, le sue tracce portano lontano, indietro nel tempo, già al pensiero di Platone in cui l’ente ha priorità sull’essere: di qui l’oblio o dimenticanza dell’essere. Come dire, l’essenza della tecnica si configura, per un verso, come destino della metafisica del soggetto, per altro verso come l’autocompiersi ed esaurirsi di questa metafisica. Ma in prospettiva heideggeriana, la tecnica, come si può notare, non è il prodotto del caso, piuttosto destino metafisico che è incluso, come si diceva sopra, nel darsi e sottrarsi epocale dell’essere. In questo senso, l’essenza della tecnica rappresenta l’esperienza epocale che è, sì, abbandono dell’essere, nello stesso tempo essa offre, però, la possibilità di comprendere la storia della metafisica nella sua essenza compiuta e quindi nella sua dissoluzione. Comprendere, cioè, quella storia ch’è dominio dell’ente sull’essere, nichilismo appunto, essendo questo la storia nella quale, heideggerianamente, dell’essere non è niente.


--Verità come ritorno all’essere

--Come rispondere (filosoficamente) allora al nichilismo se la sua storia è storia dell’essere, ovverosia la storia nella quale ormai dell’essere non è più niente?
Rispondere alla domanda significa ricostituire l’essere come verità, o meglio ricostituire l’essere nella sua verità, ciò significa però un ritorno inaggirabile all’essere. Un ritornare, cioè, intanto, al punto di partenza che ha dato avvio a quel mutamento dell’essenza della verità il cui risultato è nichilismo o il niente. Qual è questo punto di partenza, quale l’inizio? L’inizio del mutamento della verità si ha allorché, a partire da Platone, alla svelatezza originaria dell’essere, si è fatto corrispondere lo sguardo ontico dell’ente-uomo, allorché la verità non è stata più intesa come discoprimento (aletheia), ma come corrispondenza tra rappresentazione e rappresentato. A partire da questo mutamento, che ha travolto l’essenza della verità, non è più l’essere a spiegarsi all’uomo, ma l’uomo a spiegarsi l’essere e più precisamente: è l’uomo a spiegare l’essere nel suo essere. Se seguiamo le linee tracciate da Heidegger, anche
Kant non ha fatto molto meglio per superare la dimenticanza dell’essere. Infatti, è vero che Kant non desume più la conoscenza dalla corrispondenza tra rappresentazione e rappresentato, piuttosto dalla corrispondenza della conoscenza a regole, ovverosia seguendo le linee che sono già tracciate nella struttura dell’intelletto, ma più che superare la dimenticanza dell’essere passa da una verità come teoria della corrispondenza ad una verità come teoria dell’oggettività del rapporto di rappresentazione 9) e niente più. Il primato dell’ontico non viene affatto meno. Tutt’altro, tant’è che la verità è intesa sempre ancora e comunque come qualcosa che si può riconoscere o di cui si può disporre se si ha la possibilità di una sua fondazione o di un logos valido universalmente la cui vincolatività è riconosciuta o riconoscibile da tutti 10). Nell’ottica della metafisica tradizionale, punto di riferimento della verità diventa la determinata realtà che, di volta in volta, viene assunta come logos, storia, ragione, sacro, divino, ecc., ovverosia come categoria che rappresenta l’essenza vera dell’uomo e a cui l’uomo è obbligato e in cui l’uomo deve riconoscersi se vuole giungere alla sua vera essenza o al suo vero sé (si veda in questo contesto la critica devastante ai concetti formulata da Stirner). La metafisica della presenza (Metaphysik der Anwesenheit) di cui parla Heidegger, è tutta dispiegata già qui, in un concetto di verità in cui si cerca, di volta in volta, il criterio, il punto metafisico di fondazione ultimo per la verità e la conoscenza 11).
-- Heidegger rovescia tutta la storia del pensiero occidentale proprio con la domanda: “perché crediamo che la verità sia qualcosa che abbia bisogno di un criterio?” 12). In questa domanda si trova uno dei punti di partenza fondamentali per discorrere del concetto di verità in Heidegger e di eredità heideggeriana, il fatto, cioè, che alla costrizione, se vogliamo, autogiustificativa, o meglio alla fissazione (come direbbe Max Stirner) nella ricerca di un criterio sovrastorico come fondamento della verità, indipendentemente dal linguaggio, dalle regole e dalle forme di vita di una determinata comunità, Heidegger abbia voluto contrapporre le sue grandi scoperte: la temporalità e storicità dell’essere, quindi l’inaggirabile prestruttura del comprendere o il circolo ermeneutico, in ultima analisi e fondamentalmente: la ricerca di un nuovo linguaggio. Ricerca che ha contribuito non poco alla svolta linguistica in filosofia, ad un nuovo modo di filosofare o meglio di pensare con tutti gli effetti anche d’irritazione che ha causato e causa l’intraducibilità che tutti noi conosciamo del linguaggio heideggeriano. Come sempre vogliamo valutare questa svolta verso un nuovo linguaggio, tutto possiamo fare, ma non scindere il pensiero di Heidegger dalla ricerca linguistica, dall’ossessione di creare un nuovo linguaggio che corrisponda al linguaggio dell’essere o della verità e uscire, in definitiva, dal linguaggio metafisico. Ma qual è il linguaggio della verità e quindi non metafisico? Sappiamo che Heidegger ha fatto ricorso, in un primo momento, al concetto di Unverborgenheit (aletheia). Nel saggio Dell’essenza della verità (“Vom Wesen der Wahrheit” del 1930 (pubblicato nel 1943), egli dice: verità è “die Offenständigkeit des Verhaltens”. Ovverosia, se seguiamo la versione offerta dall’ottima interpretazione di Rorty 13): verità è ciò che accade nell’atto originario della creazione di un linguaggio. Parlare di nuovo linguaggio, per Heidegger, non significa allora corrispondere a criteri (già esistenti o elaborare concetti da far corrispondere agli oggetti nel senso tradizional-metafisico di adaequatio), ma aprirsi al processo di creazione di nuove possibilità dell’essere. (Negli sforzi linguistici di Derrida si nota, penso, con chiarezza questa eredità heideggeriana). Il linguaggio della verità è veramente tale, allora, se è apertura (Lichtung). In questa prospettiva, se partiamo dall’assunto che non possiamo disporre di nessun criterio assoluto o oggettivo, anche e soprattutto per la determinazione degli stessi criteri, si comprende facilmente che per l’esattezza o la giustezza (Richtigkeit) di proposizioni, o per la verità, in generale, viene a mancare quel punto d’osservazione intoccabile che si riteneva ancora possibile nell’ontologia metafisica tradizionale o nella metafisica, che Heidegger, definisce della presenza (Metaphysik der Anwesenheit). Detratta alla metafisica, la verità è situata ora, invece, nell’accadere del linguaggio stesso e più precisamente: in quelle (nuove) forme di linguaggio che sono discoprimento dell’essere. Sotto questo punto di vista, dire linguaggio significa dire allo stesso tempo e primariamente rientro nell’essere. Si tratta, in termini heideggeriani, del passaggio o di quella svolta (o Kehre), come Heidegger stesso la definisce, che noi possiamo riassumere con le parole: il passaggio dal carattere trascendente dell’esserci alla temporalità quale orizzonte proprio dell’essere o più precisamente: il passaggio dall’ontologia fondamentale, in cui si parte ancora dall’esserci ovverosia dalla capacità progettuale dell’uomo, all’evento, all’accadimento (Ereignis) dell’essere. Nel saggio già citato Dell’essenza della verità, Heidegger dirà: “il salto nella svolta” è da intendersi come “una svolta entro la storia dell’essere” (Seyn) 14). La svolta, precisa Heidegger, “non è un cambiamento del punto di vista di Essere e Tempo, in essa il pensiero che là veniva tentato, raggiunge per la prima volta il luogo della dimensione a partire dalla quale era stata fatta l’esperienza di Essere e tempo, come esperienza fondamentale dell’oblio dell’essere” 15). È importante notare che con la svolta, il problema della verità non si pone più sul piano dell’esserci, ma sul piano della radura, quindi sul piano stesso dell’essere. Luogo della verità è la svelatezza, il discoprimento e non più l’apertura (Erschlossenheit): appunto l’Ereignis. Ma che cos’è l’essere come evento o accadimento?


--Il passaggio dal primo inizio all’altro inizio 16)

--Certo, alla domanda cos’è l’essere ognuno cerca risposta da quando c’è un filosofare. E Heidegger col centrare tutto sull’essere, sulla verità dell’essere e sul senso della verità dell’essere sembra suggerire di poter dare una risposta definitiva a questi interrogativi. Effettivamente, però, Heidegger più che risolvere gli interrogativi dati con l’essere 17), si limita a farci entrare nel tema della verità, ma non nel tema della verità così come posto nella tradizione metafisica, per esempio in quello legato alla contrapposizione di essere e nulla, piuttosto nel tema della verità a partire da un concetto di essere i cui caratteri non sono più, come nella metafisica tradizionale, quelli dell’assolutezza, dell’immutabilità o definitività, ma quelli della temporalità o storicità, o nella terminologia di Vattimo – quelli della complicità di essere e tempo 18) . Essere e tempo, così l’opera ritenuta fondamentale di Heidegger, fa chiarezza sul modo completamente nuovo di rapportarsi all’essere. Nella contrapposizione tradizionale di essere e nulla, nell’aver assegnato tradizionalmente all’essere un senso di immutabilità e non di storicità e finitudine, si dispiegano per Heidegger tanto l’abbandono dell’essere (Seinsverlassenheit) quanto la dimenticanza dell’essere (Seinsvergessenheit). L’essere, così Heidegger, ha abbandonato il modo di essere dell’essente per cui l’essere rimane nascosto, impensato e ininterrogato nella sua verità. È chiaro che qui si può subito sollevare la domanda: come fa Heidegger a parlare di essere, se l’essere nella sua verità è occultato, impensato, ininterrogato? Ora, se vogliamo avvicinarci alla soluzione di questa (apparente o vera) aporia dobbiamo passare dal primo al secondo Heidegger, similmente al salto (Sprung) che costituisce e costruisce la svolta (Kehre) nello stesso Heidegger. Fare, cioè, il salto nel Sein che in Essere e tempo mancava. In che cosa consiste questo salto o Sprung? Il salto nel Seyn è per Heidegger il salto dal primo inizio 19) (l’inizio della filosofia occidentale, l’ontologia metafisica) all’altro inizio, all’inizio non più metafisico (all’inizio, cioè, che è da venire, se verrà, si dovrebbe forse aggiungere ed io sono scettico su questo “verrà”). Per Heidegger, si tratta però non di un salto qualunque, ma del salto nell’essere. Anche in questo caso si presenta qualche domanda e forse anche qualche ulteriore aporia: intanto si ha l’impressione che l’essere non sia così astratto come a prima vista potrebbe sembrare. Sembra anzi, che Heidegger sappia che cos’è l’essere, tant’è che lui parla di salto in. Ma la domanda non meno centrale è: su quali presupposti evitare dimenticanza e abbandono dell’essere? Heidegger risolve il problema premettendo che il salto nell’essere è l’apertura dell’essere. Come si può notare non si tratta, allora e semplicemente, di un oltrepassamento dall’uno all’altro inizio (dalla dimenticanza alla manifestatività dell’essere), per esempio, per il tramite della mediazione del pensiero e per processo di riflessione. A dire il vero, l’altro inizio (cioè l’inizio postmetafisico) sta a significare, invece, che l’uomo dovrebbe trasformare la sua essenza. Si potrebbe subito aggiungere: solo dopo questa trasformazione, l’ente-uomo entrerebbe nella possibilità della domanda sull’essere. Ma questo non è nemmeno il punto. Quel che Heidegger richiede è il mutamento o passaggio da uomo razionale metafisico a uomo custodia dell’essere. In questo caso e solo in questo caso si tratterebbe del salto giusto: di un salto come inizio ancora più originario, di un inizio iniziale a monte del primo inizio, in altri termini, dell’inizio di un pensiero nuovo, dell’inizio che apre una nuova storia, di un inizio che non è più quello metafisico o l’inizio del niente o dello sprofondare nel nichilismo, ma il manifestarsi dell’essere: si tratterebbe dunque di essere nell’essere, di vivere nell’essere, con l’essere. Di un inizio appunto vero, dunque, nuovo, se vogliamo appunto postmetafisico, così come teoretizzato, anche se da prospettive certamente diverse, da nichilisti come sopra menzionati, per esempio da Stirner e Nietzsche. Ma diversamente da Stirner e Nietzsche, ed in modo più radicale, Heidegger solleva qui un problema di grande attualità e portata teorica: il problema del fondamento o della fondazione della verità stessa. Se vogliamo: il problema della conoscenza e della scienza. E qui Heidegger rivoluziona una volta in più non l’uno o l’altro indirizzo scientifico o di pensiero, ma tutto il pensiero metafisico occidentale. Quindi: tutte le categorie della conoscenza e della scienza. Perché qui ne va del pensiero stesso e del suo senso e della sua verità. E nulla rimane in piedi delle procedure e dei metodi delle scienze e della logica dei criteri delle scienze e del loro fondamento. Non da ultimo, questo spiega l’espressione heideggeriana: la scienza non pensa. La scienza, infatti, per Heidegger non coglie la verità. Col che non si apre necessariamente al sacro o al divino, anche se una lettura del pensiero di Heidegger in chiave teologica sarebbe non poco interessante come dimostra per esempio uno studio molto accurato di Jüngel e Trowitzsch 20). Ma torniamo al problema del pensiero che come si diceva sopra, a questo punto, non è né mio né tuo né nostro, ma dell’essere stesso. Infatti, ciò di cui si parla come pensiero e interrogazione nei passaggi che intercorrono tra il primo e l’altro inizio, avviene, per Heidegger, non per facoltà del soggetto, ma dall’intonazione (Einklang) dell’essere, nella necessità della dimenticanza dell’essere, come salto, quindi, nell’essere per la ‘fondazione’ della sua verità come preparazione a quelli che in futuro sono (in mezzo o) tra uomo e Dio 21). Si può notare: nel pensiero così pensato nulla rimane della scienza e di scientifico. E allora poniamo la domanda: ma che cosa dobbiamo intendere con in mezzo o tra (zwischen)? La risposta heideggeriana è: quel in mezzo o tra è proprio la verità dell’essere (Seyn), la radura (Lichtung) dell’essere che si avvera non come procedura di scienza, ma come accadimento, non per volontà del soggetto, ma per apertura dell’essere. A questo accadimento l’uomo può certo appartenere, ma non come soggetto dell’accadere o come scienziato o possessore di verità, piuttosto come colui che nell’accadimento è usato 22). Certo, anche qui i termini heideggeriani sono esposti al gioco linguistico di cui lui è, allo stesso tempo, maestro e artefice unico. Usato (gebraucht) è da intendere nel senso che l’uomo è riportato a ciò che è proprio suo ed in esso l’uomo è, come tale, appunto, mantenuto. Cosa dicono di nuovo questi concetti? Non dimentichiamo il passaggio dal primo all’altro inizio (e cioè: dal primo filosofare, quello metafisico all’altro filosofare, quello del manifestarsi dell’essere). Per cogliere il senso di questo essere usato dell’uomo, dobbiamo tener presente, allora, che l’uomo è un essere usato nell’accadimento della verità, per cui rientriamo nuovamente nel tema dell’abbandono e della dimenticanza dell’essere. Nella necessità, cioè, a partire dall’essere: non come necessità a partire dal mio essere. Nella necessità del pensiero, ma, come dicevo sopra, non nella necessità del mio pensiero. Di quale pensiero? Di quale essere allora? In termini metafisici, la domanda tradizionale dell’essere si pone nei termini: “Was ist das Seiende?” (Cos’è l’essente?). È la domanda-chiave della tradizione metafisica e corrisponde, in termini heideggeriani, al primo inizio (erster Anfang), all’inizio di quel pensiero metafisico che, a partire da Platone, ha determinato tutta la storia dell’Occidente e lo sprofondare nella non-verità e nel nichilismo e a cui Heidegger vorrebbe far seguire l’altro inizio: l’inizio dell’essere e della verità. Ma per questo mutamento o nuovo inizio, alla domanda Was ist das Seieinde (Cos’è l’essente) deve seguire un’altra domanda; la domanda che apre all’altro inizio, al nuovo inizio appunto. La domanda: Was ist Sein? (Cos’è essere?), come domanda di fondo (Grundfrage) della metafisica. Questa domanda di fondo o Grundfrage è però cosa (Sache) di un pensiero diverso, di un pensiero non più metafisico, non di verità delle proposizioni o di verità proposizionale, in generale, nel senso di un pensiero, per così dire, scientifico, ma, e come si accennava sopra, è domanda di un pensiero che è il fatto stesso della verità dell’essere. A tale proposito, nel saggio, Lettera sull’umanismo Heidegger scrive: “Il pensiero, detto semplicemente, è il pensiero dell’essere. Il genitivo vuol dire due cose. Il pensiero è dell’essere in quanto, fatto avvenire dell’essere, all’essere appartiene. Il pensiero è nello stesso tempo pensiero dell’essere, in quanto, appartenente all’essere, e all’ascolto dell’essere”. Indubbiamente, possiamo chiederci fino a che punto Heidegger riesca a sciogliere le aporie che crea intorno al concetto essere. Nella quarta edizione alla prolusione (del 1943) di Cos’è metafisica (Was ist Metaphysik), Heidegger, per esempio, precisa: “appartiene alla verità dell’essere che, sì, l’essere è essenzialmente senza l’ente, ma che mai invece l’ente è senza essere”. Nell’edizione del 1949, si può invece leggere: “appartiene alla verità dell’essere che mai l’essere sia essenzialmente senza l’ente, e che mai un ente è senza l’essere”. In qualche modo, la difficoltà data con la differenza di essere e ente (di ontologico e ontico) e del loro rapporto di interdipendenza o interrelazione o di dipendenza dell’ontico dall’ontologico 23), rimane un problema di fondo irrisolto del pensiero heideggeriano. Tant’è che l’essere ovverosia l’accadimento o l’evento, in altri termini l’Ereignis se da un lato è se stesso, dall’altro è pensato come rapporto di co-appartenenza all’ente-uomo. Non è facile uscire dall’aporia e il gioco linguistico potrebbe continuare in infinitum, tant’è che Heidegger in Identità e differenza (Identität und Differenz) del 1957 riprendendo il discorso del rapporto di co-apparteneza precisa: “La differenza di essere ed ente è in quanto dif-ferenza di trasmissione e avvento la composizione di entrambi che svela e vela” 24). A prescindere dalla soluzione o meno dell’aporia o altre aporie di cui sopra si parlava, rimane una interpretazione di fondo senza orma di dubbio il voler sottrarre l’essere all’uomo in quanto l’essere è cosa fondamentalmente dell’essere stesso, appunto sempre e comunque Ereignis indipendente dall’uomo; d’altra parte l’essere heideggeriano ha un rapporto particolare con l’uomo: è, sì, se stesso, ma nello stesso tempo ha sempre e comunque un rapporto come si diceva di co-appartenenza, o per meglio dire, essenziale, con l’ente-uomo, in quanto nell’apertura o radura dell’essere è situato il Dasein dell’umano. Ora chi cerca la verità, indipendentemente dall’aporeticità o meno dell’impostazione heideggeriana, non può fare a meno che partire dal fatto che l’ente-uomo è situato non nell’assolutezza dello spirito hegeliano o nell’Io trascendentale di Kant, ma nella temporalità del Dasein. Temporalità che costituisce il Dasein. Né c’è, d’altro canto, come ci insegna Heidegger, una linearità o un susseguirsi progressivo (un imporsi hegelianamente della ragione nella storia, un logos, una provvidenza, un Dio) che progressivamente illuminano sempre meglio e sempre di più il cammino umano tortuoso dall’ignoranza alla conoscenza, il passaggio dal male al bene ecc.. La verità heideggeriana, che non ha nulla da condividere col procedere delle scienze e con i criteri di esse, non è un prodotto del soggetto e della sua metafisica, tutt’altro come abbiamo più volte messo in evidenza. Dal momento che l’essere può darsi come sottrarsi, anche la verità può svelarsi o velarsi. La verità non è dell’uomo né della sua intenzione e intuizione: essa è della storia dell’essere, movimento a partire dell’essere, tant’è che, per Heidegger, nella verità “si è o non si è”. Col che, ovviamente, anche la radicale confutazione della metafisica finisce per assumere un significato diverso e forse ambiguo. Il pensiero dell’essere è certo pensiero non metafisico se è cosa dell’essere e della sua verità, ma e d’altra parte, la metafisica sembra essere, allo stesso tempo, all’interno della storia dell’essere e tale da velare l’essere stesso. Ciò spiegherebbe anche il darsi e sottrarsi (epocale) dell’essere e della verità (nonché la ricerca di termini che spieghino un “superamento” della metafisica e quindi un superamento dell’oblio dell’essere: si va non a caso, come detto inizialmente, dalla Überwindung alla Verwindung della metafisica), dall’impossibilità, quindi, quasi di sottrarsi al suo destino, ad una consumazione interna a se stessa della metafisica, ovverosia una consumazione della metafisica all’interno dell’essere che porta alla luce una paradossalità interna all’essere stesso, se l’interpretazione qui avanzata regge quanto implicitamente supposto. La consumazione della metafisica, all’interno dell’essere, porta però a compimento anche l’avverarsi del destino metafisico. L’altro inizio che dovrebbe susseguire al primo inizio (che costituisce quello metafisico) dovrebbe essere, infatti, quel nuovo inizio oltre-metafisico, libero ormai dal velarsi dell’essere perchè espressione dell’essere: quell’apertura postmetafisica che s’impone dall’intonazione (aus dem Anklang) dell’essere nella necessità, a cui sopra accennavo e direi ormai estrema dovuta alla dimenticanza e all’abbandono dell’essere, in cui il destino metafisico che ha raggiunto con la tecnica il suo culmine consuma anche i suoi ultimi resti, e apre così a partire dall’altro inizio, la verità dell’essere e può finalmente porsi da sfondo a quelle figure umane dell’ “ultimo Dio” che è “l’inizio della storia futura” 25).

--Per concludere

--La risposta heideggeriana al nichilismo creato dal consumarsi irrimediabile del destino metafisico e della sua compiuta mancanza di senso è questo altro inizio che lascia dietro di sé il primo inizio della storia del pensiero Occidentale. È l’aprirsi ad un nuovo inizio di pensiero, scrollandosi di dosso il carico, direi anche e soprattutto nichilistico a cui il pensiero soggiaceva, quel niente assoluto, cioè, che lo costituiva, essendo il nichilismo, come si diceva all’inizio, la storia in cui dell’essere non è più niente.
--Un messaggio di forte attualità e che fa parte dell’eredità heideggeriana, a cui non possiamo rinunciare, è senz’altro il pensiero interrogante (das fragende Denken) che è qui alla base del superamento del niente metafisico e nichilistico. --In altri termini: alla base dell’apertura all’inizio della verità dell’essere, a quel nuovo radicale della storia dell’esistenza umana che può solo ergersi sulle rovine dell’esaurirsi del vecchio mondo metafisico e quindi dalla necessità appunto dell’intonazione (Anklang) dell’essere o verità, però non più come un altro nuovo logos (definitivo), sia esso divino o umano, ma logos non più logos: temporalità, storicità, finitudine.

Michele BORRELLI

 

--note:

--1) "Pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza un finale nel nulla: ‘l’eterno ritorno’. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (il ‘non senso’) eterno!", così Nietzsche, in Der europäische Nihilismus, tr. it. di S. Giametta, Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, Adelphi, Milano, 2006, pp. 13-14.

--2) Nietzsche scrive testualmente: "In fondo solo il Dio morale è infatti superato", ivi, p. 14.

--3) M. Stirner, Der Einzige und sein Eigentum, tr. it. di L. Amoroso, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, 1999, 2a ed. 2002.

--4) In Il nichilismo europeo, op. cit., ivi, pp. 18-19, Nietzsche scrive: "La specie d’uomo più malsana d’Europa (...) è il terreno di questo nichilismo: essa considererà la fede nell’eterno ritorno una maledizione. Quando si è colpiti da questa, non si arretra più di fronte a nessuna azione: non estinguersi passivamente, ma fare estinguere tutto ciò che è a tal punto privo di senso e di scopo”.

--5) Karl Löwith, Il nichilismo europeo, a cura di C. Galli, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 47.

--6) Heidegger scrive: “Il ‘senza senso’ significa il senza verità: il rimanere assente della radura dell’essere. La mancanza di senso si compie con il fatto che questo rimanere assente persiste nell’inconoscibilità e con essa l’essere scompare nella dimenticata dimenticanza. ‘Essere’ vale a pena ancora come la parola più universale non problematica del più vuoto e del più universale, l’ente ha preminenza senza perplessità. Esso si manifesta e si afferma nella pretesa di essere senz’altro fattibile e di conseguenza pianificabile e calcolabile. Offrendosi in tal modo l’ente ottiene con la forza nell’uomo il privilegio esclusivo della fattura. L’inarrestabile delle sue aperture illimitate pone un incantesimo nell’umanità, in virtù del quale per essa l’ente sempre solo fattibile è tutto. ‘Essere’ – abbandono dell’essere – compimento della mancanza di senso. Quando la mancanza di senso si compie, i ‘valori’ (i valori vitali e culturali) vengono proclamati i più alti scopi e forme degli scopi dell’uomo. I ‘valori’ sono sempre solo la traduzione occulta dell’essere senza verità nei meri titoli di ciò che è considerato stimabile e calcolabile nell’unica cerchia della fattibilità. È il valutare della trasvalutazione di tutti i valori, non importa in quale direzione essa si possa attuare, è il definitivo ripudio nella compiuta mancanza di senso” (M. Heidegger, “Il comunismo e il destino dell’essere”, vol. 69 ed. completa degli scritti, tr. it. di L.P.Capano, per il passo citato vedi MicroMega 4/99, pp. 286-287).

--7) Scrive Vattimo in Filosofia al presente, Garzanti, Milano 1990, pp.26-27: “La nostra è una civiltà nichilistica, ed è per questo che proviamo quello che Sigmund Freud chiamava ‘il disagio della civiltà’: nel mondo moderno, che è il mondo della scienza e, soprattutto, della tecnica dispiegata, l’uomo ha perduto punti di riferimento, sicurezze, valori stabili, e si trova in quella situazione che nel vocabolario del pensiero di derivazione hegeliana e marxista è stata definita di ‘alienazione’. La mia tesi sarà in generale che oggi noi non siamo a disagio perché siamo nichilisti, ma piuttosto perché siamo ancora troppo poco nichilisti, perché non sappiamo vivere sino in fondo l’esperienza della dissoluzione dell’essere: da qui quell’insieme di sensazioni di frustrazioni e di disagio che si chiama alienazione.” A p. 28, si può leggere: “Io proporrei una definizione di nichilista diversa …, una definizione in cui mi riconosco quando mi dichiaro nichilista e sostengo che dobbiamo diventare nichilisti in maniera più profonda”. E a p. 28, ibidem, si può leggere: “Penso…che una concezione praticabile, ed anche positiva, di nichilismo nella nostra cultura sia quella secondo cui, affinché l’esistenza abbia un senso, l’essere non deve avere quei caratteri di stabilità, immutabilità, definitività che, a parere mio, e a parere di autorità filosofiche maggiori di me, il tradizionale pensiero metafisico gli ha conferito, dalla filosofia dei greci in avanti”.

--8) Vedi sul contesto, R. Rorty, “Heidegger wider die Pragmatisten”, in Wirkungen Heideggers, neu hefte für philosophie, 23, Vandenhoeck & Ruprecht, 1984, p. 2.

--9) Ivi , p. 4.

--10) Il rifiuto di ogni criterio è tale in Heidegger che la sua interpretazione della Critica della ragion pura di Kant lo costrinse, in un primo momento, ad una forzatura a dir poco altamente paradossale. Interpretando, infatti, la Critica della ragion pura come fenomenologia, la (questione normativa o) quaestio iuris è, per Heidegger: “solo la formula per il compito di una analitica della trascendenza, vale a dire di una pura fenomenologia della soggettività del soggetto e cioè quella di un [soggetto] finito”. La forzatura non ha bisogno di alcuno sforzo ermeneutico se si parte dal presupposto che eccetto la fenomenologia trascendentale di Husserl, non c’è fenomenologia che non sia per sua natura ontologia e quindi sempre anche modo di vedere completamente esterno e contrapposto ad ogni deduzione trascendentale come quaestio iuris. Ne è prova il fatto che lo stesso Heidegger, in ultima analisi, abbia successivamente dovuto rifiutare anche la deduzione trascendentale perché non conciliabile con l’ontologia. Cfr. U. Claesges, “Heidegger und das Problem der Kopernikanischen Wende”, in neue hefte für philosophie, 23, Wirkungen Heideggers, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1984, pp. 75-112. Vedi soprattutto, pp. 91 e 99. Cfr. Anche K.-O. Apel, Auseinandersetzungen – In Erprobung des transzendentalpragmatischen Ansatzes, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1998, soprattutto il paragrafo “Heideggers Beitrag zu einer Transformation der Transzendentalphilosophie, der letztlich auf eine Destruktion hinausläuft”, pp. 513-536. Scrive Heidegger: “Die transzendentale Deduktion ist fast durchgängig unhaltbar, doch gibt Kant gleichwohl in ihrem Verlauf philosophische Anstösse, die man nur in der rechten Weise aufangen und in die rechte Bahn lenken muss”.

--11) Per il contesto vedi anche R. Rorty, “Heidegger wider die Pragmatisten”, in Wirkungen Heideggers, neue hefte für philosophie, 23, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1984, pp.1-22.

--12) Cfr. R. Rorty, “Heidegger wider die Pragmatisten”, in neue hefte für philosophie, 23, Wirkungen Heideggers, Vandenhoeck & Ruprecht, 1984, pp. 1-22.

--13) HGA IX, 201, tr. it. di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, p. 156.

--14) M. Heidegger, Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano, 1995, p. 52. “Esperire in modo sufficiente e partecipare a questo pensiero diverso, che abbandona la soggettività, è reso peraltro più difficile dal fatto che con la pubblicazione di Sein und Zeit la terza sezione della prima parte, Zeit und Sein, non fu pubblicata (…) Qui il tutto si capovolge. La sezione in questione non fu pubblicata perché il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l’aiuto del linguaggio della metafisica”.

--15) O. Pöggeler nel suo libro Der Dekweg Martin Heidegger, riporta il seguente passo di Heidegger che K. Tsujimura considera la struttura di base del pensiero del tardo Heidegger: “Was gesagt wird, ist gefragt und gedacht im ‚Zuspiel’ des ersten und des anderen Anfangs aus dem ‚Anklang’ des Seyns in der Not der Seinsvergessenheit für den ‚Sprung’ in das Seyn zur ‚Gründung’ seiner Wahrheit als Vorbereitung der ‚Zukünftigen’ des ‚letzten Gottes’ ”. Vedi K. Tsujimura, Zur Bedeutung von Heideggers ‚übergänglichen Denken’ für die gegenwärtige Welt, in neue hefte für philosophie, 23, Vandenhoeck & Ruprecht, 1984, pp. 46-58, cit. p. 46.
Heidegger scrive: “Nel primo inizio l’essere dispiega la propria essenza come schiudimento; nell’altro inizio l’essere dispiega la sua essenza come evento”. (Cfr. M. Heidegger, “Il comunismo e il destino dell’essere”, it., ivi, p. 295).

--16) Rorty si chiede: “Perché Heidegger pone sempre di nuovo la domanda sull’essere, senza mai dare una risposta? Suppongo che la risposta sia: perché l’essere è un buon esempio per qualcosa per cui noi non possediamo criterio alcuno per rispondergli”, ivi, p. 13.

--17) Interpretando Heidegger, Vattimo testualmente: “l’essere è in quanto è prima e dopo, è tempo”, in idem, Filosofia al Presente, cit., p. 29.

--18) Cfr. Koichi Tsujimura, “Zur Bedeutung von Heideggers‚ übergänglichem Denken’ für die gegenwärtige Welt”, in neue hefte für philosophie, 23, Wirkungen Heideggers, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1984, pp. 46-35.

--19) Rinvio per questo contesto all’interessante contributo di E. Jüngel e M. Trowitzsch, “Provozierendes Denken – Bemerkungen zur theologischen Anstössigkeit der Denkwege Martin Heideggers”, i. neue hefte für philosophie, 22, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1984, pp. 59-74.

--20) A pagina 144 del libro Der Denkweg Martin Heidegger di O. Poggeler si trova il seguente passo di M. Heidegger: “Was gesagt wird, ist gefragt und gedacht im ‘Zuspiel’ des ersten und des anderen Anfangs aus dem ‘Anklang’ des Seyns in der Not der Seinsvergessenheit für den ‘Sprung’ in das Seyn zur ‘Gründung’ seiner Wahrheit als Vorbereitung der ‘Zukünftigen’ des ‘letzten Gottes’ ”. Vedi a riguardo K.TsuJimura/Kyoto, “Zur Bedeutung von Heideggers ‘übergänglichem Denken’ für die gegenwärtige Welt”, in Wirkungen Heideggers, neue hefte für philosophie, 23, cit., pp.46-58.

--21) Cfr. K.TsuJimura/Kyoto, “Zur Bedeutung con Heideggers…”, cit., p. 51.

--22) Commentando l’interpretazione heideggeriana della Critica della ragion pura di Kant, Claesges si chiede: ”Kann die apriorische Erkenntnis bei Kant als ontologische Erkenntnis in dem Sinn verstanden werden, dass sie die Offenbarkeit des Seienden ermöglicht, die für die aposteriorische (ontische) Erkenntnis notwending vorauszusetzen ist?”, cfr. U. Claesges, “Heidegger und das Problem der Kopernikanischen Wende”, in neue hefte für philosophie, 23, Wirkungen Heideggers, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1984, p. 94. Sarebbe anche interessante mettere a fuoco in che senso si può veramente parlare di due tipi di verità o di conoscenza: conoscenza ontica e conoscenza ontologica.

--23) “Die Differenz von Sein und Seiendem ist als der Unter-schied con Ueber-kommis und Ankunft der entbergernd-bergende Austrag beider”, Neschke, Pfullingen, 1957, p. 57.

--24) Cfr. O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heidegger, p.264.

--25) Heidegger era convinto, per quanto ciò possa far inorridire, che “la storia dell’essere” dovesse passare “attraverso la devastazione”. Sulla problematicità politica di questa supposizione ci sarebbe molto da dire e non è questione che può essere affrontata in questa sede. Mi limito a riportare uno dei tanti passi problematici di Heidegger. In “Il comunismo e il destino dell’essere”, vol. 69, p. 94 (dell’edizione completa degli scritti di M. Heidegger) egli scrive per esempio: “Se mancasse quindi la devastazione effettiva, ciò rappresenterebbe, dal punto di vista della storia dell’essere la vera e propria catastrofe. Sarebbe l’irrigidimento nello status quo”. (Cfr. per la citazione, MicroMega 4/99, p. 282). “L’essere in quanto evento porta anche nel suo abisso e in quanto tale un’essenza mutata del lasco di spazio e di tempo originariamente unito, lì la storia assume il suo futuro” (ivi, p. 295).

 

  • Martin HEIDEGGER

Martin HEIDEGGER

--A pagina 144 del libro Der Denkweg Martin Heidegger di O. Poggeler si trova il seguente passo di Martin Heidegger: “Was gesagt wird, ist gefragt und gedacht im ‘Zuspiel’ des ersten und des anderen Anfangs aus dem ‘Anklang’ des Seyns in der Not der Seinsvergessenheit für den ‘Sprung’ in das Seyn zur ‘Gründung’ seiner Wahrheit als Vorbereitung der ‘Zukünftigen’ des ‘letzten Gottes’ ”. Vedi a riguardo K.TsuJimura/Kyoto, “Zur Bedeutung von Heideggers ‘übergänglichem Denken’ für die gegenwärtige Welt”, in Wirkungen Heideggers, neue hefte für philosophie, 23, cit., pp.46-58.

 

 

 

  • Max Stirner

Max Stirner - Wikipedia - http://it.wikipedia.org/wiki/Max_Stirner

--Max Stirner è lo pseudonimo di Johann Kaspar Schmidt (Bayreuth, Germania, 25 ottobre 1806 - Berlino, Germania, 26 giugno 1856), filosofo tedesco sostenitore radicale di posizioni antistataliste che danno importanza all'ateismo e all'egoismo. Il suo nom de plume deriva da un soprannome che gli era stato dato dai compagni di scuola a motivo della sua alta fronte (Stirn).

--Viene considerato come uno degli antesignani di movimenti quali nichilismo, esistenzialismo, anarchismo e soprattutto anarchismo individualista. Egli nega esplicitamente di sostenere una posizione filosofica assoluta, aggiungendo che dovendosi assegnare a un qualche -ismo sceglie che sia l'egoismo. Stirner chiaramente aderisce sia all'egoismo psicologico sia all'egoismo etico, le antitesi di tutte le ideologie più tradizionali e di tutti gli atteggiamenti sociali come lui li concepiva.

--L'opera principale di Stirner è Der Einzige und sein Eigentum, L'ego e la sua proprietà (o L'Unico e la sua proprietà), pubblicata per la prima volta a Lipsia nel 1844 e comparsa in numerose successive edizioni e traduzioni. [...] - Max Stirner - Wikipedia

 

 

  • Nichilismo links

--La risposta di Heidegger al nichilismo

--Con Heidegger spostiamo l’attenzione su una prospettiva un po’ diversa di consumazione o superamento del nichilismo. Intanto è la stessa filosofia della tradizione occidentale, come ontologia metafisica, a manifestare, secondo Heidegger, il suo essere nulla, costituendosi, infatti, sul nulla ed in questo senso, irreparabilmente, in vista del nulla. In chiave di lettura filosofica, si può, allora, superare il nichilismo?


emigrati.it Dipartimento Formazione e Informazione via Internet Politica Internazionale Digital Divide e Tecnologie dell'Informazione Linux ed il Software Libero Partners - Internet Network dell'Associazione Internet degli Emigrati Italiani Contatti - IContacts - Contacten - www.emigrati.it

http://www.emigrati.org/Festival_Filosofia/Martin_Heidegger-Borrelli.asp